OSSERVATORIO ITALIA

L'economia della cultura

di Luca Paolazzi

 

PAOLAZZI

 

Con la cultura si mangia? Detto in altri termini, la cultura aiuta la formazione e l’aumento del PIL, e quindi del benessere materiale, oltre che spirituale, delle persone?

 

La questione ha sempre alimentato molte polemiche tra chi ritiene che di cultura non si viva e chi invece pensa che sia una grande attrazione per i crescenti flussi di viaggiatori del mondo globalizzato. Della prima opinione, per esempio, sono quanti credono che gli studi umanistici offrano pochi sbocchi lavorativi ai giovani. Mentre senz’altro si schiera dal lato della seconda opinione chi opera nel settore turistico. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso non si colgono gli aspetti più importanti e i legami più profondi tra la cultura e il dinamismo dell’economia.

 

Infatti, la visione della cultura come elemento di attrazione ricorda l’atteggiamento che si ha di fronte a un giacimento di petrolio e origina da due concezioni distorte della cultura stessa. La prima è che sia una materia che ci arriva dal passato, e che è quindi sostanzialmente morta. Un po’ come il petrolio che è nato dalla trasformazione chimica di resti di piante e altri esseri biologici depositati nei fondali marini. Esseri defunti, appunto. La seconda è che lo sfruttamento di tale «giacimento culturale» assomigli a una rendita, con un’impostazione estrattiva dell’attività economica che vi ruota attorno. Beninteso, gli operatori turistici sono imprese che vivono in un contesto altamente concorrenziale e devono ingegnarsi e lavorare sodo per conquistare le preferenze dei viaggiatori di ogni parte del mondo. Tuttavia, poter contare sul fascino delle città d’arte o sulla bellezza incomparabile dei paesaggi italiani offre un vantaggio competitivo che si sono trovati in mano per pura sorte.

 

A queste due concezioni si allacciano due visioni della cultura tipicamente italiane e strettamente legate: anzitutto, la cultura è una faccenda elitaria, riservata a pochi che ne capiscono e che fanno comunità a sé, una comunità chiusa; inoltre, il patrimonio culturale va gestito in modo estremamente conservativo, e guai a spostare anche una sola pietra, e meno che mai per ragioni di iniziativa economica. Nonostante questi concetti e queste visioni, gli italiani hanno saputo e sanno valorizzare economicamente la cultura, in modi ben diversi da quelli meramente turistici, seppure nella stragrande maggioranza dei casi lo fanno del tutto inconsapevolmente, per non dire inconsciamente. Questi modi passano attraverso altre due visioni, molto diverse dalle precedenti, sul ruolo vivo e vitale della cultura, anche di quella pietrificata in monumenti, palazzi, resti di città e civiltà antiche. La prima visione assegna alla cultura un ruolo chiave nel creare valore identitario: nascere e crescere in luoghi di grande bellezza ci segna, ci dà un imprinting, ci distingue da popoli che vivono in luoghi molto meno ricchi paesaggisticamente e storicamente. La seconda visione è legata alla prima: la cultura è fonte di creatività e innovazione, perché ispira la mente e nutre lo spirito di bellezza.

 

Per alcuni questo processo creativo avviene attraverso un percorso codificato e un metodo quasi scientifico. Sebbene anche in questo caso le influenze della cultura non siano affatto esclusivamente razionali. Per la stragrande maggioranza della popolazione italiana, invece, l’assimilazione della bellezza che il panorama che ci circonda irradia è osmotica, e quindi involontaria. Perciò, il processo è simile a quello che genera la produzione di vitamina D nella pelle grazie ai raggi del Sole che la colpiscono.

 

Per una via o per l’altra, accade che in Italia le industrie creative (da noi allargate ai settori della moda) sappiano moltiplicare il valore aggiunto delle attività culturali (visite a musei, festival, mostre, teatri, concerti) in una misura sconosciuta negli altri Paesi europei avanzati: sei volte, contro due in Francia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito. Ossia ogni euro generato dalle produzioni culturali diventa sei euro in quelle creative+fashion. È quello abbiamo battezzato «il bello e ben fatto» italiano e che caratterizza la produzione di molti distretti industriali che punteggiano un po’ tutta la Penisola. D’altra parte, Antonio Stoppani la consacrò come Il Bel Paese, riprendendo l’appellativo che i versi di Dante («del bel paese là dove ‘l sì sona») e Petrarca («il bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda e l'Alpe») identificano inequivocabilmente.

 

Tutto bene, dunque? Purtroppo, no. Perché questa bellissima rosa ha due grandissime spine. Più una terza velenosissima. Le due spine sono che in nessun altro Paese europeo si fa e si spende così poco in cultura come in Italia. Il che è un vero controsenso figlio proprio di quella concezione secondo cui di cultura non si vive. Quale impresa mai non punterebbe ancora di più su un’attività che sa espandersi fino a sei volte? La seconda spina è che gli italiani, sempre in virtù di quella sciagurata concezione e della visione della cultura come bene elitario, partecipano pochissimo alle attività culturali e in larga parte se ne sentono esclusi. Di nuovo: se nutrirsi inconsciamente di bellezza porta a generare le produzioni belle e ben fatte che conquistano i mercati mondiali, cosa accadrebbe se questo nutrimento fosse consapevole e più consistente grazie a un maggior coinvolgimento delle persone?

E la spina velenosa? Sono i giovani che vanno a cercare maggior fortuna altrove e che, intervistati dalla Fondazione Nord Est, ritengono che l’unico tratto positivo del vivere in Italia è l’elevata offerta artistica e culturale. Però non basta a tenerli qui. Anche in questo caso se l’Italia giocasse diversamente il jolly della cultura che la storia gli ha messo in mano, allora ci sarebbe un maggior coinvolgimento degli stessi giovani in ogni ambito lavorativo e ci sarebbero meritocrazia, responsabilizzazione, autonomia decisionale… Quante cose la cultura porta con sé! E c’è chi è ancora convinto che non dia da mangiare…

Principali dati economici e finanziari